AFFONDAMENTO  GIUDECCA

Ci sono fatti della nostra storia, che non possono essere cancellati, rimossi o dimenticati, ma è necessario ricordarli e mantenerli vivi per la generazione presente e soprattutto per quella futura.   

 

Venerdì 13 ottobre 1944. È una bella giornata di sole. Di quelle giornate limpide e calde, che paiono “regalate” dall’estate, prima del monotono grigiore dell’autunno. Ma basta un attimo a guastare l’incanto alla gente tornata all’aperto.
Improvviso, alle 10.30, torna il sibilo straziante e lugubre delle sirene, che ormai da mesi fanno sussultare gli animi dal terrore della morte. Tutti si affrettano a recuperare i propri cari, per rientrare a casa o nei rifugi, per mettersi al sicuro. È un gesto ormai consueto. Forse anche inutile, tale è l’impotenza, la fragilità di fronte alla forza sterminatrice dei bombardamenti.
Fortunatamente anche questa volta il rombo minaccioso dei cacciabombardieri si allontana lasciando solo paura. Ma si attende ancora un’ora prima di ritornare in strada. Sono ormai 18 giorni che gli allarmi non si concludono tragicamente. Da quel 25 settembre, quando l’incursione aerea aveva lasciato lutti e rovine proprio sulla piazza, nella zona di Vigo. Anche gli allarmi possono diventare routine. E poi la vita deve continuare, in questa guerra che pare non finire mai.

Questa mattina, per ragioni di sicurezza, ha rinunciato alla sua corsa delle 10.30 il piroscafo “Giudecca” dell’Acnil, che da Vigo fa linea diretta tra Chioggia e Venezia. Non rinuncia però a quella successiva delle 12.30. Anzi imbarca anche più passeggeri del solito. Anche molti di quelli prima bloccati dall’allarme. Quanti? Difficile dirlo, qualcuno parla di quattrocento, sono forse di meno: senz’altro oltre duecento.
Sono persone di Chioggia la maggior parte, circa un centinaio, e di Sottomarina, di Venezia e di altri centri del litorale di Pellestrina, ma anche di altri paesi della campagna. Gente che viaggia per sbrigare nel capoluogo qualche pratica o per andar a far visita a parenti, a familiari ricoverati negli ospedali o nei sanatori, ma anche a portare viveri e il cambio della biancheria ai ragazzi dell’orfanotrofio “Maris Stella”. Ciascuno nasconde una storia di povertà e dolore, aggravata dagli effetti della guerra. Tra loro anche qualche militare italiano (c’è un caporale della contraerea) e una dozzina di tedeschi, secondo la testimonianza di un sopravvissuto. Qualcuno addirittura deve correre e fare il salto per potersi imbarcare nella motonave ad ormeggi già sciolti.

Si naviga tranquilli per un quarto d’ora. La prima fermata è al pontile di Caroman, oltre il porto di Chioggia, dove salgono altri passeggeri. Poi improvviso un rombo di motori dal cielo. Sono tre caccia dell’aviazione angloamericana, che volano a bassa quota proprio in laguna. Frastuono e sagome che sovrastano sempre più chiaramente sopra il battello. Il pedinamento persiste minaccioso per una decina di minuti, il tempo di raggiungere l’abitato di Pellestrina.

Sono momenti di grande tensione. Si racconta dell’intenzione del comandante di accostare a riva per scongiurare pericoli al convoglio. Tempestivamente bloccato, però, armi in pugno da un sergente tedesco.

Una virata improvvisa, radente non lascia il tempo a chi sta sulla plancia di cercare un riparo. Raffiche di mitraglia a ripetizione partono all’impazzata dai velivoli in picchiata. Poi le bombe sganciate dall’alto, che trasformano in pochi minuti il piroscafo in un girone infernale. È uno spietato tiro al bersaglio. Tutt’intorno si sollevano alte e voluminose colonne d’acqua ben visibili fino a Chioggia. E che trasformano le tranquille acque della laguna in un mare in tempesta. Il piroscafo procede per forza d’inerzia dal cimitero fino al cospetto della chiesa. Sono tre le bombe che colgono l’obiettivo. Una prima bomba asporta nettamente la cabina di comando, scaraventando in acqua il timoniere, e immobilizza il natante sul basso fondale. Una seconda colpisce la prua sul lato di sinistra. La terza distrugge totalmente il locale macchine. Il piroscafo inclina e inesorabilmente affonda.

La violenza dell’esplosione è terribile: gli alberi e il timone saltano in aria come frecce: verranno poi recuperati in una barena ad oltre una trentina di metri. Le schegge o i proiettili coinvolgono anche l’abitato di Ognissanti, crivellando dentro e fuori perfino la chiesa e le case che si affacciano alla riva.

Inenarrabili le scene di panico, le grida di dolore dei corpi straziati e mutilati, i lamenti degli agonizzanti imprigionati tra le lamiere e i rottami. Drammatico il fuggi-fuggi di quanti dalle terrazze cercano rifugio sotto coperta. Si crea una ressa confusa di corpi schiacciati con quelli che con altrettanta disperazione cercano al contrario di uscire dalle cabine della stiva, che sta imbarcando acqua, rendendola una trappola mortale, un’unica grande bara.

L’acqua che sale dallo scafo sventrato si colora di rosso e copre inesorabilmente i morti e i feriti che non possono muoversi. Solo pochi riescono miracolosamente ad uscirne vivi. È il caso fortunoso di una ragazza chioggiotta di 14 anni, Valeria Pagan, chiamata Rita, colpita dalle schegge al volto mentre si trovava nel lato destro della stiva sotto prua. Era alla sua prima uscita e in compagnia della cugina Elsa Lanza stava andando dagli zii a Venezia, per alleggerire per qualche giorno il peso di una famiglia che contava altri sei orfani del padre, morto in guerra alcuni anni prima. Ha gli occhi pieni di sangue e alla cieca cerca di aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno. Afferra un braccio. Orrore: è un arto staccato. Non sa nuotare. Il dolore e la paura la fanno svenire. Ma non affonda. Sarà il vestito nuovo indossato per quella uscita speciale a gonfiarsi come una camera d’aria e a mantenerla a galla priva di sensi fino all’arrivo dei soccorritori.

C’è anche un prete tra gli sventurati che soccombono, don Giuseppe Natale Vianello, nativo di Pellestrina, che fa il cappellano a Sottomarina. Doveva celebrare la funzione di suffragio nel trigesimo della morte del fratello. Si racconta che prima di spirare abbia impartito a tutti l’assoluzione. Aveva cercato riparo sottocoperta chiamando invano con sé la superiora delle suore dell’ospedale, che riuscirà a scampare alla malasorte aggrappandosi ad una bricola. Accanto a lui c’è anche un chierico ventenne della parrocchia di San Giacomo, Sergio Ballarin, che stava andando a far visita al fratello Emilio, ospitato nell’istituto “Maris Stella”.

Chi può si lancia in acqua. Si cerca di aggrapparsi ai bordi del battello e ad altri relitti di legno galleggianti. Qualcuno, come il bigliettaio Giovanni Vitturi di Venezia si trova tra le mani un salvagente. C’è addirittura chi, come il giovanotto Mario Voltolina, 27 anni, pur colpito da due schegge alla schiena e una alla caviglia, riesce a portare in salvo un bambino spaurito che strilla, finitogli tra le braccia, non si sa come. Ma non tutti hanno le forze di raggiungere la riva a nuoto in quel trambusto. Come l’eroica giovane mamma Elva Voltolina, che pur stremata dalle ferite, lotta nell’acqua per mettere in salvo il suo bambino, Agostino e poi spira. È solo un piccolissimo anche se significativo campionario di storie che compongono quell’incomparabile dramma umano.

Anche una quarta bomba va a segno: situazione meno nota. Colpisce una barca da pesca, che si trova nelle vicinanze del piroscafo. Quasi una pietosa appendice in questa immane tragedia. C’è dentro un’intera famiglia, dei Nordio, che abitano al civico 36 di calle Padovani a Chioggia. Padre, madre e cinque figli tutti molto giovani. Assieme al marito Angelo c’è anche la moglie Teresa Bellemo che ha portato con sé anche i figli più piccoli, proprio perché non si fidava a restare solo in casa con il terrore dei bombardamenti. Pensava di essere più sicura all’aperto in laguna, dove non ci sono case che ti crollano addosso. Una famiglia spezzata. Nell’impatto la donna scompare tra le acque, l’uomo viene ferito al torace, la figlia Giuseppina di 7 anni muore, l’altra di 11 anni, Bruna, riporta gravi lesioni intestinali. I più grandicelli, Alfredo di 12 e Michelangelo di 14 restano solo leggermente feriti, solo l’ultima nata, la piccola Elia, di poco più di tre anni ne esce incolume.

I primi ad accorrere in aiuto sono gli abitanti di Pellestrina. Incuranti del pericolo, mentre ancora infuria la minaccia di un altro passaggio di fuoco dei caccia, montano nelle loro barche da pesca per recuperare i naufraghi che arrancano fuori e dentro il piroscafo, ormai ridotto ad un ammasso di ferraglie. Difficile distinguere i morti dai feriti svenuti dal dolore. Sono tanti i superstiti che ricordano di aver riaperto gli occhi e ripreso conoscenza solo sopra una barella improvvisata o nel letto di un ospedale.

Il difficile compito di accertare anche un flebile segno di vita nei corpi recuperati e portati a riva tocca al dottor Marella, medico condotto del paese, tra i primissimi a giungere sul posto. A lui si aggiungono presto altri due medici religiosi dell’ordine dei Camilliani. Si lavora d’emergenza sulla nuda terra a curare i feriti, ad assistere i morenti, orribilmente mutilati. Il primo ricovero dei feriti più gravi è la casa del parroco. Don Guerrino Cavallarin, che è chioggiotto ed è il primo ad identificare alcuni morti e feriti e ad avvertire le famiglie. Ma sono tanti. Troppi. Si riempie l’ospedale dell’isola, un convalescenziario, ma anche le camerate del “Maris Stella”, gestito dai padri Canossiani in attesa di un ricovero. Qui finisce con ferite multiple al viso, alle mani e al corpo, anche Albino Lanza, capitano di lungocorso in pensione, che stava raggiungendo l’istituto di cui era direttore.

Appena giunta la notizia a Venezia partono subito alla volta di Pellestrina autorità, sanitari, organizzazioni di volontari. Prendono il largo già alle 13,30 dal capoluogo tre battelli dell’Acnil e dell’U.N.P.A, squadre dei Servizi lagunari del Comando tedesco, i vigili del fuoco. Le cronache ricordano anche alcuni nomi dei medici mobilitati in questo soccorso: i professori Romani, De Marchi, Molinari, Bellavia e le suore Oliva e Anna dell’Ospedale civile; i dottori Maggio, Caruso, Spangaro della Croce Rossa e il dottor Cassini del pronto soccorso ospitato nella sede dell’istituto Manin. Sono loro che provvedono alle medicazioni più urgenti e che assistono i feriti nel trasporto all’ospedale. Un lavoro affannoso e febbrile, che si prolunga per tutto il pomeriggio, reso ancor più difficile dalla persistente paura degli aerei che continuano a sorvolare quel corridoio lagunare.

Solo alle 19 giungono di ritorno in Riva degli Schiavoni i tre battelli. Trasportano una cinquantina di feriti, i più gravi. Alcuni sono davvero gravissimi al punto che non riusciranno neppure a raggiungere il luogo di cura. Li dividono tra il “Metropol”, l’albergo requisito dai tedeschi e trasformato in ospedale della C.R.I., e l’Ospedale Civile. Lo sbarco dei feriti ha luogo sotto lo sguardo incredulo e inorridito di una folla ansiosa di notizie che si assiepa sempre più numerosa attorno all’imbarcadero.

Compito arduo quello di individuare l’identità delle vittime di quella catastrofe. L’unica lista di nomi certi da verificare è quella del personale di bordo: complessivamente dodici persone. Quando dopo molte ore si prova a stilare un primo consuntivo si ha subito, in piccolo, la portata del dramma: due morti, quattro feriti, ma ben sei dispersi. Sono deceduti il timoniere Antonio Ballarin e il marinaio Dobrillo Bellemo, spirati durante il trasporto in ospedale e poi trasferiti all’obitorio dell’ospedale Sant’Anna di Venezia. I feriti sono il bigliettaio Giovanni Vetturi, i marinai Giordano Bellemo, Mario Vianello, il fuochista Giuseppe Piasentin. Mancano all’appello i bigliettai Luigi Antonini e Giuseppe Gradara e i due fratelli Clodomiro e Dante Ravagnan addetti al bar di bordo.

Al “Metropol” vengono ricoverati una ventina di feriti, in gran parte donne; Amalia Ceola, Valeria Pagan, la ragazzina quattordicenne di cui abbiamo parlato, Giuseppe Cusimano, Angela Ricchi, Felice e Annamaria Padoan (marito e moglie), Rosa Zennaro, Elia Padoan, infermiera dell’Ospedale al Mare, Vincenza Schiavon, Armando Russo, Maria e Nina Soncin (madre e figlia), Maria Battistella, Ofelia Girardello, Edvige Busetto in Vianello, Luigia Busetto, che subisce la trapanazione del cranio, Aldo Colombo (il fratello era appena stato ferito nell’ultima incursione aerea su Mestre), Elsa Ceolin, Manlio Voltolina, Giuseppe Bottoni, il bigliettaio del piroscafo Giovanni Vitturi.

All’ospedale Sant’Anna: il caporale della contraerei Giuseppe Zambon di Punta Sabbioni e il fanalista Cesare Bandi.

All’Ospedale Civile vengono condotti i più gravi. Ci sono alcuni feriti dell’equipaggio: Giuseppe Piasentin e Giordano Bellemo, i polesani Pietro Pregnolato e Luigi Barbieri, il vicentino Giovanni Mosele, le veneziane Maria Bagatin, Giovanni Vianello di Pellestrina, Alcibiade Papini, Antonia Rosera e tanti chioggiotti: Nicola Doria, Corrado Scarpa, Antonio Bighin, Antonietta Bonivento, Elvira Ranzato, Giuseppe De Ambrosi, Renato Ballarin, futuro parlamentare e sindaco di Chioggia, Guido Tiozzo, che ha perso un braccio, Sperino Ballarin. Ezio Caraceni, Francesca Zennaro, Carlo Sambo. E anche sei membri della famiglia che si trovava nella barca da pesca coinvolta del bombardamento. Accanto al padre Angelo Nordio, e alle sorelline Bruna e Giuseppina (che però muore qualche ora dopo il ricovero) vengono ricongiunti anche gli altri meno gravi, compresa la più piccola di tre anni incolume, rimasti orfani della mamma. Ce ne sono anche altri che non è facile identificare subito, come quel giovanotto ventenne giunto in serata, spirato nel tragitto nelle braccia di una suora infermiera.

Anche da Chioggia, appena ci si rende conto della tragedia, si muove un convoglio di barche, per collaborare ai soccorsi. Ma anche per portare i familiari dei passeggeri, ansiosi di conoscere la sorte dei propri cari, che avevano salutato qualche ora prima. La ricerca affannosa a volte si prolunga per giorni trasformandosi in una vera odissea per ospedali, case di cura, infermerie di tutto il circondario. Tanti, proprio tanti, non si trovano subito perché stanno ancora lì sotto.

* * *

Il recupero delle salme imprigionate nel relitto avviene all’indomani. Da Venezia parte di buonora un battello dell’Acnil, con i contrassegni della C.R.I. che porta i palombari della Marina con le loro attrezzature. Ci sono anche un medico dell’U.N.P.A. ed alcuni infermieri.

Riportare a riva le salme irrigidite dalla morte nelle posizioni più drammatiche non è facile cosa. È uno strazio indicibile anche per gli operatori più incalliti. E poi è uno spettacolo d’inferno che non finisce mai. Dalle proporzioni immani, che nessuno immaginava prima dell’immersione dei subacquei. L’affannoso e intenso lavoro del giorno avanti per recuperare dall’acqua e curare dalle ferite il numero maggiore possibile di sopravvissuti aveva portato ad illudersi o a sperare d’aver esorcizzato almeno in parte la morte. Invece no. La tragedia doveva ancora mostrare la sua faccia più orribile.

Per comprenderne solo parzialmente le proporzioni, basta scorrere la lista redatta alla conclusione delle operazioni. Dopo che le salme erano state allineate a terra, tutte in fila, per identificarne la precisa causa di morte – ferite da mitragliamento o da bombardamento o altro di analogo – e per espletare le difficili e dolorose operazioni di riconoscimento di quei corpi dai volti ormai sformati.

Sono 67 i nomi della lunga lista delle salme recuperate, estratte dalla motonave affondata o pescate con lo strascico nel fondale circostante. E per la prima volta riteniamo giusto riprodurla integralmente, con l’avvertenza che i morti di questa tragedia sono molti di più. Feriti gravissimi spirati nel trasporto all’ospedale o qualche ora o qualche giorno dopo il ricovero. Altri recuperati subito nel turbinio delle acque insanguinate privi di vita al momento dei primi soccorsi.

Manca, poi, ogni riferimento ai militi tedeschi deceduti e recuperati, almeno 4 o 5, che pur alcuni testimoni, come Franco Scarpa (vedi testimonianza riportata accanto) con molta certezza ricordano prima allineati sulla riva, poi sottratti con tempestività da altri soldati tedeschi giunti dal Comando e trasportati con una barca requisita.

Di questa immane tragedia, comunque non si darà mai con precisione il numero totale delle vittime. Resterà sempre imprecisato anche il numero dei “dispersi”. Lo stesso recupero delle salme resterà incompleto, perché molti altri resti verranno ritrovati nelle cabine sottocoperta un anno dopo, quando il relitto del piroscafo verrà recuperato.

Indubbiamente le urgenze della guerra, che continuava spietata, impediscono alle autorità di fare nell’immediato un bilancio esauriente del tragico evento. Ma contestualmente s’incrociano anche ragioni di propaganda che portano le autorità fasciste a gonfiare le cifre (peraltro già incomparabili) continuando a parlare genericamente di circa duecento morti. “La nuova delittuosa impresa dei liberatori”, “un altro feroce crimine degli anglo-americani”: sono gli slogan con cui la stampa del regime fin dal primo momento definisce quell’inutile massacro di civili, consumato “in assenza di obiettivi militari”.

Ma anche successivamente, dopo la liberazione, non si farà nulla per ripristinare la verità, neppure da parte delle forze democratiche. E non solo nel definire il vero numero delle vittime, ma neppure nel chiarire le ragioni che portarono a questa incomprensibile eccidio di persone innocenti. Si continuò a parlare genericamente, e mai ufficialmente, di una segnalazione di un movimento di truppe tedesche che doveva imbarcarsi in quel piroscafo. (È accertato che avvenne alla stessa ora il giorno seguente). Si sarebbe trattato, in questo caso, di un clamoroso errore di valutazione dei tempi, oppure sarebbe intervenuto a depistare i piani un contrordine del comando tedesco? Difficile dirlo. Prevalse comunque forte il bisogno di rimozione di quell’errore-orrore che rappresentava sempre un’onta per le forze liberatrici che poi negli anni del dopoguerra, più o meno direttamente, avrebbero garantito un’egemonia sulla nuova classe dirigente.

Due anni dopo il 13 ottobre 1946, viene solennemente benedetto nel luogo del disastro, dal vescovo di Chioggia  Giacinto Ambrosi, alla presenza delle massime autorità, un capitello lavorato in ottone con l'immagine in brozo della Madonna con il Bambino, modellata dall'artista Martinuzzi. E' lo stesso pastore di Pellestrina monsignor Ferruccio Vianello alla testa di un comitato a rendersi promotore dell'iniziativa, a perenne ricordo delle "vittime innocenti " , ma anche dell'umana pietà e solidarietà di un intero paese accorso con slancio ed eroismo a portare in salvo i superstiti e alleviare le sofferenze dei feriti, a comporre con dignità i morti.

In questo luogo tornano a pregare e a ricordare ogni anno le comunità di Pellestrina, Venezia e Chioggia.